La Sicilia ha la maggiore estensione d’Italia di spiagge sabbiose non balneabili a causa di inquinamento o di abbandono perché si tratta di foci di fiumi o torrenti non monitorate, ma anch’esse considerate inquinate. Nella nostra isola sono oltre 90 chilometri in tutto, (49 abbandonati e 42 interdetti per inquinamento), pari al 21 per cento abbondante dell’intero sviluppo delle coste sabbiose, 425 chilometri totali. E poi ci sono i problemi relativi all’erosione che sta mangiando il 60 per cento delle nostre spiagge, e l’innalzamento del livello del mare, dovuto ai cambiamenti climatici, che mette a rischio ampi tratti di costa.
Sono dati riportati da Legambiente nell’appena pubblicato “Rapporto spiagge 2021” nel quale l’associazione ambientalista analizza la situazione in tutta Italia. La Sicilia non ne esce bene, anche perché, a fronte dei gravi problemi presenti, le istituzioni spesso sembrano non avere coscienza degli interventi corretti da fare, e latitano oppure operano sulla base di presunte emergenze contribuendo ad aumentare il danno. Inoltre, nell’isola negli ultimi anni sono state assegnate quasi 200 concessioni per stabilimenti balneari, portando il totale dalle 438 del 2018 a 620 nel 2021. Un incremento di oltre il 40 per cento, scrive Legambiente, che sottrae porzioni di spiaggia alla fruizione libera da parte dei cittadini.
Tuttavia la nostra regione è ancora nella parte bassa della classifica per quote di litorali sabbiosi dati in concessione agli stabilimenti balneari, con una quota occupata da impianti con accesso a pagamento del 22,4 per cento. Per fare un confronto, nella parte alta della graduatoria ci sono Emilia Romagna e Liguria, con quasi il 70 per cento di spiagge a pagamento. Il dato siciliano diventa più critico se alla quota degli stabilimenti si aggiunge la parte non balneabile di cui parlavamo all’inizio, che porta a superare il 43 per cento totale di costa non fruibile liberamente.
La spiaggia siciliana più affollata di lidi e cabine (o “capanne”, per dirla nell’idioma locale) è Mondello, con il 66,5 per cento di suolo occupato. L’unico comune siciliano citato per “buone pratiche” è San Vito Lo Capo, unico ente isolano ad avere attivato un “piano per la gestione del demanio marittimo”. In Sicilia, così come in altre regioni, lamenta Legambiente, non esiste una legge che fissi una quota minima di spiagge che devono rimanere destinate al libero accesso dei cittadini.
Note dolenti riguardano l’erosione costiera: anche in questo caso non siamo messi bene, secondo lo studio di Legambiente. Il fenomeno che riduce la larghezza delle spiagge riguarda in Sicilia circa il 60 per cento dei litorali sabbiosi. Questa tendenza è in corso almeno dagli anni ’70 a causa delle opere antropiche: costruzione di porti, insediamenti abitativi a ridosso del mare, prelievo di sabbia dai greti di fiumi e torrenti, cementificazione e realizzazione di strade costiere. Insomma un campionario di operazioni sbagliate, che hanno messo in crisi il delicato meccanismo naturale che portava all’equilibrio del profilo di costa.
La soluzione individuata nei decenni, soprattutto nei famigerati anni ’70 e ’80, quando la spesa pubblica era facile e spesso preda di poche aziende ben collegate alla politica, è sempre stata la realizzazione di opere di protezione “rigide”, i frangiflutti e simili. Le coste siciliane, ma anche del resto d’Italia, sono punteggiate da queste barriere di grossi massi a ridosso di spiagge o porti, ma con “risultati di dubbia efficacia”, scrive Legambiente. Nel 1995, si legge nel dossier, la Sicilia era la regione italiana con il maggior numero di opere rigide (barriere radenti, pennelli, porti, approdi, scogliere) a protezione della costa, con quasi un’opera per ogni chilometro.
Eppure tutto ciò non ha impedito, secondo dati Ispra del 2005 citati nel Rapporto, alla Sicilia di perdere negli ultimi 50 anni con l’erosione una superfice di 14 chilometri quadrati, come dire che è scomparsa una spiaggia lunga 700 chilometri e larga 20 metri. Eppure la tendenza sembra non volersi invertire, e continuano a essere progettate e realizzate, soprattutto nella provincia di Messina, opere poco utili, se non controproducenti, osserva l’associazione ambientalista.
Un programma che tenga conto dei cambiamenti climatici, che delinei una strategia scientifica contro l’erosione, che verifichi la possibilità di adeguamento dei canoni, in alcune zone ricche davvero irrisori, pagati dagli stabilimenti balneari. Senza mezzi termini gli autori del rapporto chiedono di intervenire per fare cessare la “vergogna delle tante spiagge non balneabili e della depurazione, perché va garantito il diritto a un mare pulito”.